Quattro anni di Kilimanjaro
ANNO 2012
E’ un caldo pomeriggio di fine maggio, e sono sul balcone a studiare in vista dell’esame di procedura civile. Non c’è bisogno che descriva quanto è noiosa la materia, allora per evadere qualche minuto dallo studio inizio a guardare un parco safari che visiterò nel mese di agosto, quando tornerò in Kenya per la seconda volta.
Tra le varie foto sul web, ne trovo una davvero spettacolare: si vede la savana e, in lontananza, il gigantesco profilo del Kilimanjaro, che con i suoi 5.895 metri sopra il livello del mare è la vetta più alta del continente africano.
Inizio a leggere qualche informazione sulla montagna, e fin da subito l’interesse è grandissimo: in un trekking di pochi giorni si possono vedere ambienti suggestivi e molto diversi tra loro e, con un po’ di fortuna, raggiungere la vetta. Una vera attrazione per un appassionato di montagna e di natura.
Nei giorni seguenti sono sempre alla ricerca di nuove informazioni sul Kilimanjaro, e pian piano maturo una certezza: non so quando, ma prima o poi, nella mia vita, ci andrò.
ANNO 2016
E’ 00:15 del 23 agosto.
Sento chiamare il mio nome: “Francesco, Francesco, wake up!”. Mi sveglio nella mia tenda, dopo una dormita intensa di qualche ora: chi ha detto che ai 4.600 metri del Barafu Camp è praticamente impossibile dormire?
Esco dalla tenda e vedo Camarero, uno dei portatori, che mi porge il thè caldo. Il panorama intorno a me è mozzafiato: c’è una luna che emette una luce inspiegabile a parole, si vede infatti molto bene il cratere sommitale del Kilimanjaro; volgendo lo sguardo verso la pianura, invece, si scorgono le luci di Moshi. Non c’è un filo di vento, l’aria è immobile.
Noto però, con leggero disappunto, che c’è già un lunghissimo serpentone di frontalini che si sta inerpicando sul pendio finale della montagna: dal Barafu Camp sono partiti quasi tutti quanti, sono tra gli ultimi rimasti.
Finalmente fa capolino dalla sua tenda anche Luis, la mia guida, e faccio finta di essere arrabbiato con lui per il fatto che siamo tra gli ultimi ad essere ancora al campo. Lui per un attimo ci casca, poi si rende conto che scherzo e lo prendo in giro, e scoppiamo in una risata.
Una risata può essere un bel modo per stemperare la tensione: sono un po’ preoccupato, ho letto di tante persone che abbandonano la vetta a poche centinaia di metri dalla stessa, davanti a me ho il tratto più duro del trekking.
Dopo una mezz’ora di preparativi partiamo, l’emozione è altissima. Mentre cammino, tengo sempre la testa bassa, perché non voglio vedere il cratere del vulcano: ti illude di essere molto vicino, mentre in verità è solamente un miraggio.
Andiamo a buon ritmo, quando arriviamo intorno ai 5.200 metri abbiamo già superato molti trekkers, assistendo a scene poco incoraggianti: chi è seduto su un masso senza avere intenzione di alzarsi, chi cammina così lento senza praticamente andare avanti, chi vomita… la quota fa questi effetti su molte persone.
Ad un certo punto io e Luis facciamo una pausa per bere: alzo la testa e mi sembra che il cratere sia davvero vicino. Ma c’è un’altra cosa che attira la mia attenzione: con il mio inglese maccheronico chiedo “Luis, siamo i primi? Non vedo luci davanti a noi”. “Si Francesco, abbiamo superato tutti! Venti minuti e arriviamo a Stella Point”.
Stella Point è la prima tappa davvero importante per arrivare alla vetta, è un punto posto sul bordo del cratere del Kilimanjaro, a 5.756 metri di altitudine: sapere di essere così vicino, e non avere nessuno davanti, suscita in me grande determinazione. In questo momento sono certo di avere la vetta in tasca, fisicamente mi sento bene.
Ripartiamo poco dopo e, come previsto da Luis, nel giro di venti minuti arriviamo a Stella Point. Beviamo altra acqua calda dalle nostre borracce, e Luis si vuole fermare un po’ perché dice che è troppo presto, che rischiamo di arrivare in vetta ancora con il buio.
Per me va bene, ma dopo più di un quarto d’ora fermi su un masso, il freddo inizia davvero a farsi sentire: la temperatura è di parecchi gradi sotto lo 0.
Chiedo a Luis di ripartire, non mi interessa di arrivare in cima con il buio, fa troppo freddo, devo assolutamente muovermi.
Camminiamo sul cratere, la luna illumina il percorso davanti a noi. Qualche nube mattutina gira, ma non ci impedisce di vedere la strada. Chiedo a Luis di passare davanti, mi piacerebbe toccare la vetta per primo. Acconsente con un grande sorriso: in fin dei conti, per me sarà la prima (e forse ultima volta) in vetta, lui ci è stato più di 150 volte!
Camminiamo rapidi e finalmente, illuminato dalla luna, vedo qualche decina di metri davanti a me il profilo del cartello che indica l’arrivo a Uhuru Peak, la sommità del Kilimanjaro, il punto più alto d’Africa.
Percorriamo gli ultimi metri con urla di gioia, siamo soli, non ci può sentire nessuno: tocchiamo Uhuru Peak e ci abbracciamo, con un sottile strato di ghiaccio sui nostri piumini.
Sono le 05:48.
Foto di rito. Rimaniamo in cima per un tempo indefinito, la vetta del Kilimanjaro solo per noi due! Il cielo inizia pian piano a schiarirsi, in lontananza vediamo arrivare un gruppetto di persone verso di noi. La magia del momento è passata, è tempo di far ritorno al Barafu Camp. Ma prima di ripartire faccio un’ultima foto, mi sono dimenticato la bandiera italiana, che poi, con orgoglio, attacco al mio zaino.
Salutiamo il gruppo che arriva e ripartiamo dopo pochi minuti.
Alle 08:30 siamo arrivati al Barafu.
Francamente non me lo sarei ma aspettato, ma proprio questo è il momento più emozionante della giornata: i miei portatori, con i quali ho passato a stretto contatto gli ultimi giorni, mi corrono incontro e mi abbracciano. Piango. Di quel 23 agosto quell’abbraccio è il ricordo più bello della mia giornata.
Mi siedo da solo davanti alla tenda, bevo un po’ di thè: ripenso a quando sono partito solamente poche ore prima, mi sembra passata una vita.
Non è detto che una montagna abbia per noi, di per sé, questo gran valore: il valore che può avere è legato ai ricordi che associamo ad essa.
Per questo il Kilimanjaro rimarrà sempre nel mio cuore: è una vetta che ho sognato per quattro lunghi anni, è il primo viaggio della mia vita che ho fatto completamente da solo, ma soprattutto è l’abbraccio di una guida e di portatori, ragazzi della mia stessa età, che hanno gioito con me in maniera così pura e disinteressata.
Ora sì, che la montagna ha un valore.
Francesco Panzone