CAUDIO CORTI E L’EIGER
Commento iniziale di Mirella Tenderini
Per il grande pubblico l’alpinismo è un’attività strana e pericolosa, difficile da inquadrare perché bisogna essere atleti per praticarla, ma non è propriamente uno sport; non ci sono campionati e classifiche e solitamente si svolge in luoghi remoti e inaccessibili, lontani dagli occhi di spettatori.
Perciò la stampa non specializzata e la televisione non se ne occupano, salvo in estate nei periodi di vacanze quando scarseggiano le notizie politiche e bisogna trovare qualcos’altro per riempire le pagine. Per fortuna in estate l’alpinismo è nel suo momento di massima attività e le notizie non mancano. Bisogna dire però che quelle che fanno maggior presa sul pubblico estraneo alla montagna non riguardano le imprese ma gli incidenti, che – ahimè – non mancano.
Nell’estate del 1957 i quotidiani dei paesi dell’arco alpino tennero milioni di persone col fiato sospeso e l’attenzione concentrata sulla parete nord dell’Eiger, dove si stava consumando una tragedia sotto gli occhi di un gran numero di soccorritori accorsi generosamente da diversi paesi diverse nazioni, impotenti ad arrestarla.
Cosa è la Parete Nord dell’Eiger
L’Eiger ha sempre avuto una fama sinistra per via della sua parete Nord che, se non è la più difficile delle Alpi è certamente quella che ha mietuto più vittime. E la sua fama è stata ingigantita dal fatto che, a differenza della maggior parte delle grandi pareti alpine, la Nord dell’Eiger è interamente visibile, come un grande palcoscenico, da un pianoro prospiciente, la Kleine Scheidegg, dove sorgono diversi alberghi e dove numerosi turisti sono attratti, più che dalla bellezza del luogo, proprio dalla possibilità di esplorare la parete l’intera montagna? per mezzo dei potenti cannocchiali installati sulle terrazze degli alberghi. Con un po’ di fortuna si possono vedere delle cordate in progressione o addirittura in difficoltà: decisamente qualcosa in più da raccontare al rientro in città. Attraverso quei cannocchiali erano stati osservati “in diretta” i tentativi falliti, i drammi e infine il successo dei primi salitori nel 1938.
In seguito, col solo intervallo degli anni di guerra, i tentativi erano diventati ancora più frequenti, ma fino a quel 1957 soltanto sedici cordate avevano raggiunto la vetta, e nessuna di esse era italiana.
In Italia c’erano naturalmente diversi alpinisti che aspiravano a scalare la parete: primo fra tutti Riccardo Cassin, che nel 1938 se l’era vista soffiare da una cordata austro–tedesca – e si era subito rifatto con la prima ascensione del più difficile se pur meno fanaticamente ambito Sperone Walker sulla Nord delle Grandes Jorasses. Ma anche quella volta qualcuno, quasi di nascosto, l’aveva preceduto. E si trattava proprio di una cordata di Ragni di Lecco, l’associazione di cui Cassin era il più autorevole esponente.
Conosciamo Claudio Corti
Il capocordata era Claudio Corti, un giovane di Calolziocorte, alpinista fortissimo ma avventato, più ingenuamente entusiasta che ambizioso, che si era messo in mente di essere lui il primo italiano a scalare la Nord dell’Eiger. Il suo compagno, Stefano Longhi, era parecchio più anziano di lui, e pur essendo un buon scalatore non aveva un curriculum tale da lasciare immaginare che avrebbe accettato la proposta di Claudio di seguirlo sull’Eiger.
In alpinismo, come nella vita, ci vuole anche un po’ di fortuna, e purtroppo anche in montagna i ”se” valgono poco, esattamente come i ”se” della storia. “Se” Claudio e Stefano non avessero perso tempo all’inizio, “se” non avessero incontrato i tedeschi Günther Nothdurft e Franz Mayer e uno di loro non si fosse sentito male e “se” non si fossero legati in un’unica cordata rallentando la salita e bivaccando più del previsto; “se” il tempo non fosse drammaticamente peggiorato, “se” a Stefano non si fossero congelate le mani e non fosse volato, “se” Claudio non fosse stato colpito alla testa da un sasso…
“Se”, insomma, fossero arrivati in cima, Claudio Corti e Stefano Longhi sarebbero stati festeggiati come i primi salitori italiani della parete più temuta delle Alpi e nessuno in seguito avrebbe detto e scritto che Corti era un pazzo incosciente e Longhi un uomo troppo vecchio e troppo pesante per affrontare la Nord dell’Eiger.
Ma le cose andarono tutte storte e alla fine, nonostante il grande spiegamento di soccorsi in un’operazione audacissima con l’impiego innovativo di cavi e verricelli, solo Corti poté essere salvato. I soccorritori non riuscirono a raggiungere Longhi, che resistette a lungo ma finì col morire. Il suo corpo rimase in parete per un intero anno – macabra attrazione per gli osservatori ai cannocchiali della Kleine Scheidegg – fino a che, con un’altra audace azione di recupero, venne portato a valle.
Dei due tedeschi, nessuna traccia. Quando infine i loro corpi vennero ritrovati, nel 1961, e si capì che cosa era successo, tutto il mondo, alpinistico e non, si era ormai lasciato convincere dalle supposizioni più malevole, secondo le quali qualcosa di losco doveva essere accaduto in parete e la colpa di tutto doveva essere per forza di Claudio Corti che, si diceva, aveva convinto il povero Longhi a seguirlo in un’impresa al di sopra delle capacità di entrambi, che aveva commesso errori e magari, chissà, anche scorrettezze.
La stampa di lingua tedesca lo accusava apertamente di menzogna e velatamente di omicidio. Purtroppo, nelle interviste, Corti, che è persona semplice e alquanto sprovveduta e per giunta si trovava in stato di confusione dopo il sasso in testa e la lunga permanenza in parete, rese testimonianze sconnesse e contraddittorie, che non fecero che aggravare i sospetti.
Prefazione a ARRAMPICARSI ALL’INFERNO
ARRAMPICARSI ALL’INFERNO si legge come un romanzo giallo, tutto d’un fiato. Sembra una storia inventata, tanto macchinosa è la trama e tanto abilmente l’autore ha saputo concatenare le azioni, in un crescendo vertiginoso di suspense.
Il fatto che la vicenda sia vera non fa che aumentarne il pregio; ma il maggior merito di Jack Olsen, oltre a quello di aver cercato di riabilitare un alpinista calunniato, è l’aver saputo ricostruire l’atmosfera in cui avevano potuto prendere piede quei sospetti, che si erano ingigantiti a un punto tale da indurre uno dei primi salitori della Nord dell’Eiger, Heinrich Harrer, a “dirigere” personalmente dalla Kleine Scheidegg un’operazione per il tentato ritrovamento dei due tedeschi scomparsi al preciso scopo di cercare su di loro le prove della colpevolezza di Corti.
È difficile ora, a distanza di lustri, scusare tanto accanimento se non si pensa a quello che aveva significato la Nord dell’Eiger negli anni Trenta, alla retorica nazista, a Hitler che si era impegnato ad assegnare (e di fatto assegnò) la medaglia d’oro dei giochi olimpici di Berlino ai primi salitori della parete. E poi, nel 1957 la guerra era già finita da un po’, ma non era passato abbastanza tempo perché sedimentassero gli strascichi di sentimenti nazionalisti e, nei tedeschi, un velato disprezzo per gli ex alleati che si erano rivoltati o, dal loro punto di vista, avevano tradito.
I due alpinisti tedeschi, Nothdurft e Meyer, avevano un curriculum alpinistico di tutto rispetto: come si poteva credere a un italiano farneticante, che aveva dovuto essere portato in salvo sulle spalle di un soccorritore appeso a duecentoquaranta metri di cavo, e che sosteneva che Nothdurft aveva mal di pancia ed era stato lui, Claudio Corti, a soccorrerlo guidando la cordata? La cosa triste è che i sospetti che gravarono su Corti per ben quattro anni vennero condivisi dalla stampa internazionale, e anche in Italia, se non si credette mai che Corti potesse avere buttato i tedeschi giù dalla parete, si disse che era uno scriteriato, un incapace e che comunque era lui il colpevole, almeno moralmente, della morte di Longhi.
Eppure, riesaminando la vicenda con obiettività, si deve ammettere che le azioni e le decisioni di Corti sulla parete furono corrette e sensate, e a ben pensarci anche i commenti postumi sulla presunta inadeguatezza fisica di Longhi appaiono scarsamente fondati se si considera che riuscì a sopravvivere alla caduta per un numero incredibile di giorni, rimanendo solo e malconcio in piedi su una piccolissima cengia con pochi viveri subito finiti, senza alcun riparo dalla pioggia e dalla neve.
ARRAMPICARSI ALL’INFERNO è un libro appassionante e un bell’esempio di come si possa raccontare una vicenda vera come se fosse un romanzo pur senza romanzarla, senza inventare nulla, attenendosi rigorosamente ai fatti ricostruiti attraverso le testimonianze. Ci vuole bravura ma anche una grande sensibilità, che Jack Olsen dimostra di possedere in sommo grado.
Mirella Tenderini
prefazione a ARRAMPICARSI ALL’INFERNO
di Jack Olsen – Vivalda 1999
Foto dalla seconda in poi di Daniele Frialdi e Marco Verzeletti che hanno ripetuto la salita nel 2015